ASSISE CONFINDUSTRIA 2018
LA VISIONE E LA PROPOSTA
Verona, 16 febbraio 2018
Documento Finale
Questo documento è la sintesi di un percorso di ascolto ed elaborazione maturato nel periodo Novembre 2017 – Febbraio 2018.
Si sono svolti 10 incontri di pre-Assise a Roma (24 novembre), Milano (28 novembre), Napoli (6 dicembre), Firenze e Bologna (7 dicembre), Torino (11 dicembre), Venezia (12 dicembre), Cagliari (15 dicembre), Palermo (19 dicembre), Bari (20 dicembre). Successivamente, si sono svolti 4 incontri di approfondimento: “L’impresa che cambia” (Milano, 16 gennaio); “Un Paese semplice ed efficiente” (Roma, 23 gennaio); “Paese sostenibile” (Gioia Tauro, 1 febbraio); “Europa miglior luogo per fare impresa” (Pordenone, 6 febbraio).
Durante la giornata del 16 febbraio delle Assise di Verona sono stati infine organizzati 6 tavoli tematici.
Complessivamente sono stati coinvolti 8500 imprenditori, ci sono stati 750 interventi di proposte e indicazioni di policy, e sono stati raccolti 90 documenti con contributi scritti da parte di imprese e di associazioni.
La visione
L’Italia è a un bivio.
Se ai tempi delle Assise del 2011 l’obiettivo era superare la grande recessione, in queste Assise del 2018 abbiamo davanti due opzioni: tornare rapidamente indietro, senza che però si riesca ad attivare una rete di protezione sul Paese e in particolare sui titoli del nostro debito pubblico, o andare avanti e aspirare a diventare il primo Paese industriale d’Europa.
Tornare indietro è un rischio concreto.
Le grandi economie mondiali stanno attrezzandosi per migliorare la loro capacità produttiva e affrontare le sfide del futuro. Gli Stati Uniti hanno varato una ambiziosa riforma fiscale per attrarre investimenti e riportare indietro capitali. La Francia si è rimessa in cammino nel percorso delle riforme strutturali. La Germania beneficia della catena del valore con i suoi paesi confinanti, soprattutto a est, e continua ad avere performance eccezionali in tema di esportazioni. La Cina sta transitando da un’economia forte sulle esportazioni di beni seriali e a basso costo ad una focalizzata su nuove tecnologie e infrastrutture all’avanguardia. Di fronte a questi scenari la scelta è accettare la sfida e rimanere nel gruppo di testa delle grandi economie mondiali o no.
L’Italia è in cammino ma non è chiaro quale sarà la direzione e la velocità di marcia nei prossimi mesi e anni. È indubbio che le elezioni che verranno tra poche settimane potrebbero restituire un quadro a dir poco confuso e con pochi, erronei, passi, il nostro Paese diventerebbe presto l’anello debole mondiale, con conseguenze sistemiche data la dimensione del debito pubblico e il peso dell’economia italiana nell’eurozona.
La programmazione economica di imprese e famiglie ha bisogno di stabilità e certezza in un orizzonte temporale di medio termine. L’incertezza globale e europea, e quella più specifica relativa alla politica italiana, riducono oggettivamente questo orizzonte, mettendo a rischio le possibilità di sviluppo del paese. Ridurre l’incertezza è fondamentale per attrarre sempre più imprese multinazionali, la cui presenza è cruciale per lo sviluppo e per aprire ancora di più l’Italia ai mercati esteri.
Per ridurre l’incertezza dobbiamo condividere una visione, tre missioni e mettere in campo una piattaforma di interventi che diano univocamente il senso di un Paese in marcia, efficiente, aperto all’Europa e al mondo, inclusivo.
Innanzitutto non bisogna smontare le cose fatte in questi anni e che hanno dato effetti economici positivi. Ci sono politiche che hanno inciso sui fattori produttivi in modo trasversale ai settori economici e che hanno permesso di accelerare i processi di cambiamento. Queste politiche – principalmente Jobs Act, Industria 4.0, riforma fiscale, finanza per la crescita, sostegno alla promozione delle imprese all’estero, riforma della pubblica amministrazione – vanno valutate per gli effetti che hanno generato, adattate per renderle più efficaci se necessario, ma non depotenziate per motivi ideologici.
Ciò non basta.
In una fase dove c’è chi invoca più pensioni e chi più spesa pubblica, noi vogliamo parlare di giovani e lavoro, crescita, riduzione del debito pubblico. Proponiamo un metodo che parta dagli obiettivi, delle vere e proprie missioni-Paese, individui gli strumenti, tenga conto delle risorse, valuti gli effetti, sappia modulare l’intensità degli interventi là dove più necessario, in un’ottica di politica economica unitaria per tutto il Paese. Non chiediamo più spesa pubblica, ma spesa migliore. Non vogliamo l’aumento del debito pubblico che scarichi ancora una volta gli oneri sul futuro dei nostri giovani.
In una fase di rinnovato slancio l’Italia può rivendicare a pieno titolo il suo ruolo in Europa e nel mondo, ma deve mostrare ai suoi interlocutori serietà nelle scelte di politica economica, autorevolezza, determinazione nel realizzare quanto promesso e auspicato.
La nostra visione mette allora al centro tre concetti chiave: più lavoro, più crescita, meno debito pubblico proponendo tre missioni-Paese, interconnesse tra loro:
Primo: un’Italia che include,
attraverso la creazione di opportunità di lavoro, soprattutto per i giovani. La prima missione è raggiungere tra 5 anni un tasso di occupazione più alto di almeno 5 punti, con una disoccupazione giovanile che scenda di almeno 15 punti. Il tasso di disoccupazione deve scendere sotto al 7 per cento, creando in un quinquennio almeno 1,8 milioni di posti di lavoro.
L’impatto della crisi sul mercato del lavoro è stato particolarmente marcato per i giovani e ciò ha acuito la già molto netta segmentazione del mercato del lavoro italiano: tra il 2008 e il 2014 il tasso di disoccupazione è aumentato di 22,5 punti percentuali tra i 15-24enni e di 9,7 punti tra i 25-34enni, contro un aumento medio della disoccupazione di 6,6 punti. Nel 2016 un sesto dei 15-24enni era occupato, contro poco meno della metà in Germania (45,7 per cento) e quasi un terzo nella media dell’Eurozona (31,5 per cento). Ancora più marcato il divario territoriale interno: nel 2016 tra i 15-24enni poco più di uno su dieci era occupato nel Mezzogiorno (11,8 per cento) contro più di uno su cinque al Nord (21,0 per cento).
Periodi prolungati di disoccupazione e inattività aumentano il rischio di un’uscita permanente dal mercato del lavoro; la riduzione della forza lavoro a cui il sistema può attingere abbassa il potenziale di crescita. Scarse opportunità lavorative conducono all’emigrazione, creando un circolo vizioso.
In Italia assistiamo a un singolare paradosso. Mentre cresce la disoccupazione giovanile cresce il numero di imprese manifatturiere che non trovano tecnici specializzati. Il mismatch nasce dal mancato incontro tra domanda delle imprese e offerta formativa scolastica e da un deficit strutturale di orientamento.
Allo squilibrio per età si accompagna quello di genere: nel 2016 il tasso di occupazione femminile era pari al 48,1 per cento, oltre 18 punti percentuali in meno degli uomini e più di 12 sotto la media europea. Nel Mezzogiorno si ferma al 31,7 per cento contro il 58,2 per cento al Nord. I differenziali di genere si ampliano enormemente nelle famiglie con figli perché entra in gioco la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia.
Portare al lavoro più giovani e donne è ancora più urgente in considerazione del processo di invecchiamento della popolazione in atto: oggi ci sono già 35 individui oltre i 65 anni ogni 100 persone in età lavorativa (15-64); nel 2060 ce ne saranno 62. Si tratta di numeri che mettono a rischio, in assenza di interventi, la tenuta del sistema di protezione sociale e dell’intero Paese.
Politiche premianti per chi assume, un sistema di formazione più adeguato ai bisogni del mercato del lavoro, imprese più aperte ai mercati internazionali, sono tutti ambiti di azione che vanno nella direzione di creare più lavoro.
Secondo: un’Italia che cresce,
di più e in modo costante. La seconda missione è realizzare un tasso di crescita del PIL di almeno il 2 per cento in media d’anno per i prossimi 5 anni.
Si tratta di un tasso di crescita simile a quello medio della Germania tra il 2010 e il 2016, quindi un obiettivo a portata di mano. In questo modo si potrebbe colmare il gap di crescita con gli altri paesi europei che si è aperto poco prima dell’entrata nell’euro, ha raggiunto il picco durante la crisi (2,3 punti percentuali nel 2012 rispetto alla media Eurozona senza l’Italia), per poi scendere ma rimanere comunque ampio (0,9 punti percentuali l’anno scorso).
Si favorirebbe il rientro graduale del debito pubblico e si genererebbero risorse per continuare a modernizzare il Paese e mantenerlo competitivo. Si aumenterebbe la domanda di lavoro, favorendo il raggiungimento della prima missione-Paese, quella di creare lavoro.
Semplificazioni, strumenti per la competitività e l’internazionalizzazione, sostegno dell’Europa per investire più e meglio creano le condizioni per crescere.
Terzo: un’Italia che rassicura,
con il graduale rientro del debito pubblico. La terza missione-Paese è far scendere il rapporto debito/PIL di almeno 20 punti in 5 anni.
Il debito pubblico in rapporto al PIL ha raggiunto il suo massimo storico e neanche negli anni ’90 si era superata la soglia del 130 per cento. Ciò frena la crescita perché vengono sottratte risorse all’economia per servire questo debito (nel 2017, con i tassi ai minimi storici, per servire tale debito è stato impiegato il 3,8 per cento del PIL, una spesa poco superiore a quella sostenuta per l’istruzione scolastica e l’università pubblica) ed espone il Paese alle speculazioni e agli umori dei mercati finanziari che, spesso senza alcun preavviso, possono rendere costoso e complicato il collocamento dei titoli di Stato facendo salire, oltre alla spesa pubblica per interessi, anche il costo dei prestiti per imprese e famiglie.
Per queste ragioni il rientro del debito rappresenta una precondizione necessaria per acquisire la fiducia dei mercati e quella di imprese e cittadini. A tal fine occorre invertire la tendenza e mettere il rapporto debito/PIL lungo un sentiero di costante discesa. Non si tratta di fare drastici tagli di bilancio né di inseguire ricette miracolose. La strada maestra è un mix di avanzi primari, efficienza della spesa pubblica, politica dei fattori, relazione costruttiva con l’Europa, compliance fiscale.
L’obiettivo è dunque il lavoro, mentre crescita e debito sono precondizioni per maggiore occupazione. In questo senso non c’è dicotomia tra imprese e famiglie, perché il lavoro riguarda le famiglie, e si realizza principalmente nell’impresa, con un contributo importante che deve venire anche da un settore pubblico che ritorni ad essere attrattivo e capace di programmare i nuovi ingressi.
Queste tre missioni-Paese sono a portata di mano se si mette in campo, in Italia e in Europa, uno sforzo collettivo per muovere il Paese nella giusta direzione. Serve dunque il coinvolgimento attivo di tre attori:
Una parte importante della proposta di Confindustria non può non chiamare in causa l’Europa perché le politiche europee condizionano direttamente e indirettamente il Paese. Le istituzioni europee gestiscono le regole di funzionamento del mercato interno e dell’unione doganale; portano avanti una politica commerciale comune e un’unica politica monetaria per i paesi dell’Eurozona; tracciano le linee generali in tema di coesione economica, sociale e territoriale, ambiente, protezione dei consumatori, trasporti, reti trans-europee, energia, ricerca e salute pubblica.
In un mondo che diventerà sempre più globalizzato e multipolare, solo nell’ambito dell’Europa si può aspirare a mantenere ruolo e influenza negli affari internazionali di fronte ai colossi (USA, Cina, India, Russia) che già si fronteggiano.
Per portare a compimento le tre missioni-Paese proponiamo di agire contemporaneamente su sei assi prioritari:
I sei assi non guardano a singoli settori, ma ai fattori che sono cruciali per la competitività, poiché creano il contesto di riferimento per assumere di più e meglio, e operare in ambienti economici certi ed efficienti. Agire lungo le sei direttrici proposte non solo è possibile, ma è necessario. Per farlo, servono proposte da realizzare in modo responsabile per la finanza pubblica, anche per consentire una azione concentrata e più intensa laddove necessario per ridurre i divari territoriali. L’alto debito pubblico richiede di individuare insieme agli obiettivi di crescita e agli strumenti, anche le risorse.
I sei assi prioritari
In Italia il settore pubblico intermedia poco meno del 50 per cento del reddito nazionale, produce beni e servizi strategici per la crescita economica e sociale, regola la vita dei cittadini e delle imprese, raccoglie risorse da redistribuire. Con tale ruolo, fino a che il settore pubblico non diventerà più semplice e più efficiente, il Paese non potrà aumentare consistentemente il suo potenziale di crescita.
Molte cose sono cambiate in questi anni e bisogna darne atto: l’avvio della digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, le regole del mercato del lavoro, una prima revisione delle regole fiscali per ammodernarle e garantire certezza giuridica, l’introduzione del silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni, l’ammodernamento delle infrastrutture: per andare da Roma a Milano in treno ci vuole lo stesso tempo che da New York a Washington, ma tra le due città italiane ci sono 200 chilometri di ferrovia in più.
Ma la burocrazia è ancora un freno e l’immagine che l’Italia proietta nel mondo è ancora quella di un Paese lento.
Troppe regole, spesso solo formali, che generano oneri impropri e contenzioso, sono da eliminare: occorre assicurare la certezza del diritto quale primo fattore di competitività del sistema.
Abbiamo un processo decisionale farraginoso, che favorisce i veti (es. contrapposizione Stato/Regioni) e la polverizzazione delle competenze e delle responsabilità, ritardando il momento della decisione anche per evitare conseguenze sul piano delle responsabilità. Alla frammentazione delle competenze si accompagnano, spesso, il deficit di capacità amministrativa e la disomogeneità nell’interpretazione delle norme e nelle stesse procedure. Manca poi una capacità e un obbligo cogente alla programmazione, che possa permettere a chi lavora con e per la pubblica amministrazione, di sviluppare adeguate strategie di business.
Anche i tempi della giustizia sono un freno agli investimenti. La Banca Mondiale ci ricorda che in Italia ci vogliono in media 3 anni per l’esecuzione di un contratto, più del doppio rispetto alla media dei paesi avanzati.
I tempi per la realizzazione delle infrastrutture si dilatano in mezzo a una miriade di autorizzazioni preventive, controlli e difficoltà di finanziamento.
Bisogna dunque porre la questione temporale come una grande questione nazionale e chiederci quanto tempo ci mettiamo per fare quello che diciamo. Nella nostra visione un Paese semplice ed efficiente è un Paese che fa quello che dice, e lo fa in tempi certi. Riteniamo che sia più utile all’economia del Paese non avere promesse, piuttosto che promesse che non si realizzano o si realizzano con lunghi ritardi.
Ma un Paese semplice ed efficiente è anche quello che valorizza, nel settore pubblico, una cultura fondata sulla collaborazione e sui risultati, che definisce le priorità e si focalizza su quanto effettivamente è necessario lo Stato faccia in prima persona. Dati i vincoli di bilancio pubblico, che ci accompagneranno per molti anni ancora, bisogna fare un salto concettuale, da Stato erogatore di servizi e risorse, a Stato promotore di iniziative di politica economica in collaborazione con il settore privato, e regolatore. In altri termini, non sono solo i tempi dell’azione il problema, ma anche il perimetro dell’azione stessa.
Un salto di qualità può essere ottenuto assegnando una funzione redistributiva maggiore alla spesa pubblica attraverso la compartecipazione dei cittadini ai servizi offerti. Per tutti i servizi pubblici dove è possibile individuare un corrispettivo (ad esempio: scuola, università, sanità, trasporto pubblico locale), va esteso il principio per cui ognuno dovrebbe essere chiamato a contribuire alla spesa, in proporzione alle proprie capacità. Così facendo, si ottengono due risultati: primo, si generano le risorse per ridurre la pressione fiscale ed eventualmente per semplificare il sistema; secondo, si crea concorrenza spingendo verso maggiore efficienza gestionale e qualità dei servizi all’utenza.
Ciò è particolarmente vero per la sanità. La crescente domanda di prestazioni, difficilmente compatibile con una stabilizzazione della spesa pubblica, potrebbe comportare negli anni a venire una riduzione della copertura pubblica. Spazi di manovra vanno recuperati nella maggiore efficienza della spesa pubblica, nella compartecipazione alla stessa in un’ottica progressiva, valorizzando il ruolo della sanità complementare per rendere più efficiente la spesa sanitaria privata, contribuendo in tal modo a cogliere appieno le grandi opportunità di crescita e di sviluppo industriale legate alla crescente domanda di salute.
Il Paese sarà più semplice ed efficiente se si chiariscono poi i rapporti tra i diversi livelli di governo, sciogliendo il nodo irrisolto del Titolo V della Costituzione. Ci sono politiche che sono più efficienti ed efficaci se realizzate in modo decentrato e altre sulle quali bisogna avere il coraggio di dire che vanno nuovamente centralizzate: infrastrutture strategiche, energia, comunicazioni, programmazione della strategia nazionale del turismo; commercio con l’estero; norme generali sulla tutela della salute.
L’efficienza si conquista, infine, passando dalla cultura del sospetto a quella della collaborazione. I rapporti tra Stato-impresa e Stato-cittadino possono essere migliorati se si premia e discerne tra chi ha comportamenti virtuosi e chi no, se si utilizza la sanzione penale non come strumento “ordinario” di regolazione dell’economia, se si promuovono forme di dialogo e cooperazione anche preventiva - come dimostrano le buone prassi in ambito fiscale - senza, tuttavia, ingessare il sistema con un irrigidimento delle procedure autorizzatorie.
L’innalzamento della crescita economica del Paese è possibile solo accrescendo la qualità e le competenze delle persone. Su questo la strada da percorrere è ancora molto lunga e passa per un sistema formativo più efficace.
Una maggiore autonomia delle scuole nella definizione dei percorsi di istruzione, nel reclutamento del personale e nell’utilizzo delle risorse finanziarie è la direzione verso cui muoversi alla luce delle esperienze estere di eccellenza.
Anche l’università deve subire un profondo rinnovamento: con maggiore autonomia dal lato delle risorse si possono rendere i nostri atenei più internazionali attirando i migliori docenti e gli studenti più motivati, si possono potenziare i sistemi di prestiti e di borse di studio, rendere il trasferimento tecnologico una priorità e funzione chiave degli atenei con indirizzi scientifici.
È necessario investire maggiori risorse nei percorsi degli Istituti Tecnici Superiori (ITS) che già oggi sono di gran lunga il miglior canale in termini di occupabilità (oltre l’80 per cento dei diplomati lavora ad un anno dal titolo) perché rispondono ai fabbisogni di competenze manifatturiere e permettono alle stesse imprese di partecipare in modo significativo all’attività formativa. Si tratta, di fatto, del segmento più flessibile e business-oriented del sistema educativo italiano.
Allo stesso modo, l’alternanza scuola-lavoro consente alle imprese di intervenire nei processi formativi degli studenti, accompagnandoli in modo coerente e pro-attivo verso una effettiva occupabilità.
Solo con percorsi formativi adeguati è possibile aumentare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro, necessario dati i trend demografici, ma anche invertire la tendenza di questi ultimi anni all’emigrazione, che in alcune aree del Paese è diventata vero e proprio spopolamento. Dalla fine degli anni novanta l’evoluzione della popolazione ha dato un contributo negativo alla crescita del PIL quantificabile, nel corso degli anni duemila, in quasi mezzo punto percentuale all’anno a causa di un progressivo invecchiamento, a cui si è sommata la caduta della fecondità. Il declino demografico è un fenomeno che interessa anche le altre economie avanzate, ma in Italia è nettamente più marcato. In altri contesti, da tempo, le politiche per la famiglia hanno cercato di contrastare la denatalità (come nel caso della Francia) e si è puntato in misura maggiore sui flussi migratori in ingresso.
L’immigrazione, infatti, attenua gli squilibri derivanti dall’invecchiamento della popolazione grazie sia alla più giovane età sia alla maggiore fecondità degli stranieri. Pone però una serie di sfide, relative all’integrazione e alla qualità delle competenze delle persone, che vanno affrontate in modo adeguato, anche con iniziative straordinarie di formazione. Si può allora favorire un partenariato industriale per il co-sviluppo delle PMI europee e africane, incentivando la crescita delle imprese italiane sui mercati del continente africano, contribuire alla crescita del settore privato in Africa in collaborazione con i governi locali, realizzare programmi formativi per preparare gli immigrati a lavorare in Italia. Una più stretta collaborazione tre le PMI italiane e africane consentirebbe inoltre un utilizzo più proficuo dei fondi per la cooperazione in chiave di sviluppo industriale dell’Africa.
Un Paese che non continua a investire - nelle grandi così come nelle micro infrastrutture - non ha futuro. Se è ovvio che la dotazione infrastrutturale è precondizione della crescita, meno ovvio è il ruolo sociale delle stesse. Le infrastrutture sono un forte elemento di inclusione perché collegano i territori, le periferie ai centri, le città tra di loro, l’Italia al mondo, dando un senso di maggiore coesione nel Paese.
In questo contesto senza frontiere si inserisce, nell’Unione Europea, il sempre più forte appello orientato a promuovere un modello di vita più sostenibile, meno aggressivo nei confronti dell’ambiente e meno energivoro, che trova nel mondo dei trasporti la sua prima implementazione, con gli obiettivi posti di riduzione delle emissioni nocive e di riconversione modale essenzialmente da strada a ferrovia per i trasporti medio lunghi. Mobilità e logistica, di persone e merci, sono dunque fattori chiave, da sviluppare in modo sostenibile, sfruttando tutte le opportunità – di terra e di mare – che il territorio offre.
Per la mobilità delle persone, soprattutto a livello locale, non è più procrastinabile una effettiva apertura dei mercati. Questo potrebbe aiutare nella trasformazione verso una mobilità sostenibile promuovendo la filiera industriale del settore.
Per la mobilità delle merci, occorre estendere i collegamenti ferroviari verso porti/terminali ed integrare le procedure di gestione dell’infrastruttura e di manutenzione e sviluppo al fine di puntare sull’interscambio modale mare-ferro. È questa l’unica modalità in grado di smaltire in poco tempo grossi quantitativi di merce dai piazzali dei porti italiani, inseriti in contesti urbani ormai cristallizzati, difficilmente espandibili ulteriormente e caratterizzati da un sistema viario di accesso al limite della saturazione. Le azioni concrete da implementare, in tal senso, sarebbero legate alla scelta di un numero limitato e selezionato di porti con valenza internazionale, connessi infrastrutturalmente in modo diretto ed efficiente al network dei 4 corridoi ferroviari europei che oggi collega l’Italia al resto d’Europa con un sistema di collegamenti che devono diventare sempre più prioritari per le merci.
Un approccio sostenibile implica un impegno per il risanamento e la valorizzazione delle aree industriali dismesse che può consentire di avviare politiche di attrazione di nuove attività economiche e, sul piano ambientale, permette di riqualificare aree degradate, senza intaccare suolo vergine. Così come si rende necessaria una specifica programmazione per passare dalla cultura dell’emergenza per quanto riguarda le calamità naturali a una politica di previsione, di prevenzione e preparazione finalizzata alla riduzione della vulnerabilità del territorio.
In un’ottica di preservare e valorizzare le risorse, è poi importante il completamento della transizione verso un modello di crescita economica “circolare” in cui i residui della produzione e dei consumi siano reimpiegati nei processi produttivi secondo standard di riciclo elevati.
Un grande piano di infrastrutturazione sostenibile del Paese avrebbe ovvie ricadute su uno degli asset portanti della nostra economia, il turismo, ed in particolare il turismo culturale.
Ma gli investimenti per un futuro sostenibile si possono realizzare solo attraverso un’azione coordinata tra settore privato, istituzioni europee, governo nazionale, regioni ed enti locali e basata su: programmazione e valutazione di effettive priorità di intervento; certezza di risorse pubbliche per investimenti e coinvolgimento di investitori privati di lungo termine; semplificazione delle procedure decisionali e di acquisizione del consenso; adeguamento della regolamentazione della domanda pubblica e della regolazione dei mercati dei servizi generati dalle infrastrutture.
Negli ultimi 15 anni, tra globalizzazione e crisi finanziaria, il contesto concorrenziale è cambiato radicalmente. Le economie emergenti sono ormai emerse, l’innovazione digitale ha modificato radicalmente i processi produttivi e i mercati dei capitali, le merci sono vendute sul mercato globale attraverso reti di distribuzione innovative.
Le imprese manifatturiere italiane non sono state ferme. Hanno avviato processi di fusione e integrazione. Si sono affacciate sul mercato dei capitali alternativi per rafforzare la posizione patrimoniale e differenziare quella finanziaria. Hanno aggredito con più decisione i mercati esteri.
L’export italiano, anche grazie alle nuove promozioni messe in pista dal Piano Made in Italy negli ultimi 3 anni, è cresciuto nel 2017 del 7 per cento nominale, fino alla cifra record di 450 miliardi, facendo meglio di Germania e Francia. È certamente migliorato in qualità, con una crescita dei valori medi unitari all’esportazione ben maggiore dei prezzi all’export e si è evoluto in specializzazione: nel 2016 il sistema moda rappresentava ormai il 12,5 per cento del totale dell’export, le produzioni meccaniche il 39,5 per cento, la chimica, le materie plastiche, il farmaceutico il 16,5 per cento.
Le imprese hanno introdotto innovazioni digitali per ottimizzare i processi e aumentare la produttività. Oltre la metà di esse ha usufruito alla fine del 2017 del super-ammortamento e una su tre dell’iperammortamento. Si è rivitalizzato il segmento delle startup innovative (+ 11,3 per cento nel 2017, rispetto al totale registrato nel corso del 2016).
In una fase economica più favorevole, questo processo di trasformazione va accelerato e generalizzato, estendendone la portata al maggior numero di imprese per ridurre la divaricazione tra il 20 per cento di imprese globali e il 60 per cento di imprese pronte a fare il salto di qualità ma ancora non pienamente attrezzate. Così si coglierebbero appieno le opportunità offerte dal contesto internazionale e consolidare la posizione di leadership nella manifattura di qualità.
L’impresa cambia se gli imprenditori cambiano, accettando di aprire il capitale, di assumere competenze innovative e magari a loro distanti per formazione o esperienza, di investire in innovazione, di affacciarsi a nuovi mercati, in una parola, di crescere. Per crescere, servono lavoratori capaci di gestire il cambiamento grazie a una formazione 4.0 e motivati perché possono beneficiare degli aumenti di produttività con premi detassati e con un cuneo fiscale e contributivo più contenuto addirittura azzerato per i giovani neoassunti.
Alla politica spetta di individuare meccanismi di accelerazione di questi cambiamenti, per incentivarli e premiare le imprese virtuose e che rischiano nella trasformazione. Il sostegno al cambiamento si giustifica perché genera esternalità positive con ricadute non solo sulla singola impresa e i suoi dipendenti ma sull’intera collettività. In questo contesto, non c’è antitesi tra responsabilità sociale e competitività. Anzi, nell’ottica di una redditività nel lungo termine, la strada è integrare la sostenibilità nel business per generare quel valore condiviso con tutti gli stakeholder, dentro e fuori l’impresa.
Un’impresa che cambia e si muove nel mondo, che tiene conto delle esigenze degli stakeholder e che crea lavoro è il modo migliore per contrastare la cultura anti-industriale che ancora pervade il Paese.
Se l’alto debito pubblico richiede prudenza sui tagli generalizzati delle imposte, è però possibile rendere la tassazione più favorevole alla crescita economica e per questa via preparare il terreno alla riduzione della pressione fiscale.
In primo luogo è un tema di governance: la politica fiscale ha bisogno di una regia chiara, ferma e coerente, che sappia essere immune da manovre volte solo a captare consenso politico e da interventi non sistematici e caotici. È necessario un profondo rinnovamento nelle relazioni Fisco-Impresa che, oltre all’aspetto quantitativo, ponga particolare attenzione ai profili qualitativi del rapporto d’imposta, con riguardo ai temi della semplificazione del sistema fiscale, della tutela dei diritti del contribuente e dell’efficienza dell’amministrazione finanziaria nel suo complesso. Occorre, in altri termini, rifondare il rapporto fiscale partendo dalle regole di base, per ristrutturare la macchina amministrativa rendendola più solida ed in grado di produrre maggiore certezza giuridica; poiché l’incertezza interpretativa mina alla base le politiche di investimento al pari di quella normativa, emerge la necessità di un apparato di giustizia tributaria che non dissuada le imprese dal farvi ricorso, spingendole ad adeguarsi alle richieste e alle interpretazioni dell’Amministrazione finanziaria per evitare i costi e l’eccessiva alea di giudizio.
In secondo luogo, il fisco deve premiare i virtuosi, le imprese che investono, assumono, innovano e crescono, diventando sempre più strumento di competitività del Paese e leva di sviluppo per l’intera economia. L’ottica premiale va applicata anche ai lavoratori, che devono poter beneficiare adeguatamente degli aumenti di produttività e dei risultati economici positivi. I fattori di produzione devono essere lasciati quanto più possibili esenti da tassazione, per evitare distorsioni nelle scelte e per favorire quanto più possibile l’occupazione.
La lotta all’evasione è parte integrante e imprescindibile di un coerente programma di risanamento e di rinascita strutturale dell’economia. L’evasione fiscale penalizza l’equità e distorce la concorrenza. Strumenti di contrasto all’evasione più efficienti allenterebbero il peso del fisco sulle imprese sotto il profilo amministrativo. La contrazione dell’evasione diffusa consentirebbe di recuperare ingenti risorse da destinare alla crescita considerando che il tax gap per talune classi di contribuenti, secondo le ultime stime del Ministero dell’Economia e delle Finanze, supera il 67 per cento (esercenti arti e professioni e imprese personali).
Infine, l’ampliato contesto di operatività delle imprese nonché la diversificazione del modo di fare impresa apre alla necessità di recepire le iniziative comunitarie e internazionali in materia di contrasto all’erosione delle basi imponibili e di ripristino di un trattamento fiscale equo tra modelli di business tradizionali e digitali (web tax).
Nel corso della crisi finanziaria l’Europa non è stata ferma, anzi. Sono state realizzate iniziative che hanno evitato il disgregarsi dell’euro e hanno rafforzato l’area economica. Sono state attuate politiche monetarie non convenzionali, impensabili fino a pochi anni fa per la rigida interpretazione del mandato della Banca Centrale Europea.
È stata potenziata consistentemente l’azione della Banca Europea per gli Investimenti. Sono stati realizzati, anche nell’ambito del nuovo quadro degli aiuti di stato alle banche, importanti interventi sul settore finanziario per evitare una crisi bancaria irreversibile. È stata introdotta flessibilità nelle regole europee di bilancio per liberare investimenti pubblici. È stata creata una rete di protezione per i paesi che avevano perso l’accesso al mercato (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro). Sono state realizzate, in maniera continuativa, consistenti politiche di supporto allo sviluppo di conoscenza, ricerca e innovazione.
Tuttavia, anche se il consenso verso le istituzioni europee è risalito un po’ dai minimi toccati nel 2012, rimane ben al di sotto dei livelli pre-crisi (41 per cento la percentuale dei cittadini europei che hanno una visione positiva dell’UE, da oltre il 50 per cento nel 2007 secondo Eurobarometro). È necessario che l’Europa venga percepita di più come il luogo che semplifica la vita dei cittadini, che contribuisce in modo diretto a creare un contesto macroeconomico stabile, che realizza in prima persona politiche per la crescita.
Il percorso non è semplice perché si fronteggiano due posizioni diametralmente opposte: quella dei governi europeisti – Francia e Germania – che ambiscono a più integrazione, e quella dei sovranisti – soprattutto centro e est Europa – che invece vogliono rimanere in Europa svuotando il progetto di integrazione. E anche chi vuole integrazione, ha posizioni molto diverse sul tipo di delega da affidare alle istituzioni europee.
È dunque necessario stabilire con chiarezza chi fa che cosa, riducendo al minimo le politiche dove c’è un ambito di competenza mista.
In questo contesto di incertezza geopolitica, le istituzioni dell’UE saranno impegnate a cercare di superare gli stalli e individuare soluzioni su dossier politici chiave, suscettibili di avere un impatto sull'economia e sulla vita quotidiana delle imprese: il futuro dell'UEM e l'Unione bancaria, le priorità politiche per il Quadro Finanziario Pluriennale che disciplinerà il bilancio dell'UE dopo il 2020, l'attuazione del nuovo meccanismo di cooperazione per la difesa ‘PESCO’. Ma anche dossier cruciali legati alle politiche europee in materia di mercato unico, clima e energia, digitale, ricerca e innovazione, commercio estero, coesione.
La Brexit è l’occasione per ripensare la governance e le politiche europee in chiave pro crescita, anche per riconquistare consenso nei paesi sovranisti al progetto di integrazione europea. Si tratta allora di usare efficacemente le risorse disponibili nella logica della politica dei fattori, sostenendo ricerca, capitale umano, infrastrutture. Ma anche sviluppare politiche e metodi non convenzionali generando nuove risorse proprie comunitarie, nuovi strumenti, nuove istituzioni per tutelare quel bene pubblico condiviso che è l’euro con più forza, e per avere la capacità di politiche più incisive sulla crescita, la stabilità economica, la sicurezza.
Va poi detto con chiarezza che l'unica strada è quella di una maggiore integrazione, accettando un'Europa nella quale un nucleo circoscritto di Paesi possa promuovere iniziative ambiziose negli ambiti in cui non sia possibile procedere tutti assieme.
Le Proposte
Le nostre proposte partono da quegli interventi che vanno a reperire risorse finanziarie in modo non depressivo per la crescita e che poi possono essere impiegate per le misure rappresentate lungo i sei assi. Nella nostra visione, non solo vogliamo dire cosa va fatto, ma anche come, con quali risorse, e con quali ricadute sull’occupazione, la crescita, il debito pubblico, l’export. Non si tratta dunque di una lista di richieste, ma di un insieme ragionato di interventi su:
Il reperimento di risorse deve avvenire con il coinvolgimento dell’Europa, del settore privato e del bilancio pubblico:
Nel complesso, stimiamo in modo prudenziale che sia possibile recuperare circa 250 miliardi di euro in cinque anni (tabella 1).
Tabella 1 – Il reperimento delle risorse
Per quanto riguarda gli impieghi, le azioni per raggiungere gli obiettivi delle tre missioni-Paese sono molteplici, toccano tutti gli ambiti dell’economia, richiedono spesso cambiamenti organizzativi, a volte risorse pubbliche e/o intensità differenziate per territorio.
Queste azioni sono raggruppate sotto i sei assi di riferimento:
La tabella 2 riporta una sintesi per macroaggregati delle diverse proposte, quantificandone il costo. Nel complesso, stimiamo che esso sia pari a circa 247 miliardi di euro in cinque anni (tabella 2).
Tabella 2 – Gli impieghi
Gli effetti sull’occupazione, la crescita, il debito pubblico, l’export
Gli effetti sono stati stimati assumendo che non vengano toccati gli assi portanti di alcune riforme degli anni passati (Jobs Act, riforma Fornero ad esempio) e che le misure proposte inizino ad essere implementate già dal primo anno in modo da aumentare la competitività ed efficienza delle imprese e della pubblica amministrazione, nonché la dotazione in termini di infrastrutture, qualità del capitale umano, di ricerca e innovazione. Sulla base delle stime, si potrebbero avere in cinque anni 1,8 milioni di occupati in più, di cui più di 800 mila come effetto delle proposte di Confindustria. Questo porterebbe il tasso di occupazione al 63 per cento contro il 60,9 per cento atteso in mancanza delle misure indicate.
L’aumento dell’occupazione sarebbe determinato da una crescita del PIL reale di più del 2 per cento all’anno, più che raddoppiando il tasso di crescita a politiche invariate dal terzo anno in poi. Nel complesso, il valore cumulato del PIL che si aggiungerebbe rispetto allo scenario base sarebbe di 5,2 punti, circa 90 miliardi di euro di maggiore PIL.
La maggiore occupazione e la maggiore crescita inciderebbero favorevolmente sui conti pubblici ed in particolare sul rapporto debito/PIL che accentuerebbe consistentemente il profilo discendente già presente nello scenario base. Alla fine del periodo, il rapporto debito/Pil scenderebbe di più di 21 punti, dall’attuale 131,6 al 110,5 per cento. Rispetto allo scenario a politiche invariate si tratta di oltre 14 punti di PIL di minor debito, 170 miliardi di euro.
La maggiore competitività delle imprese italiane, acquisita grazie agli interventi proposti, spingerebbe ulteriormente l’export, ovviamente assumendo un quadro geopolitico stabile. La nostra stima è che la quota di export sul PIL potrebbe passare dal 31,7 per cento al 34,8 per cento in cinque anni.
Tabella 3 – Gli effetti
Nota: le stime sono state condotte utilizzando il modello econometrico del Centro Studi Confindustria. Lo scenario base è una simulazione a politiche invariate, con un'ipotesi di crescita economica tendente all’equilibrio di lungo periodo del modello CSC.
Conclusione
L’Italia non è all’anno zero.
Ha superato la grande crisi finanziaria globale senza incorrere in aiuti esterni, a differenza di Spagna, Ungheria, Cipro, Portogallo, Grecia, Irlanda, Lettonia, Romania. Ha limitato il sostegno al sistema finanziario nazionale rispetto a quanto fatto da Spagna, Olanda, Germania, Irlanda, Francia, Regno Unito.
Ha condotto riforme per ammodernare il Paese.
È cresciuta la vocazione delle imprese italiane a espandersi su mercati esteri.
Dobbiamo rivendicare con orgoglio l’essere parte di un grande Paese: siamo una delle principali economie del mondo, leader in molti ambiti anche a forte contenuto tecnologico, abbiamo unicità in termini di beni culturali diffusi, bellezze naturali fatte di isole grandi e piccole, montagne da nord a sud. È difficile pensare ad un altro Paese del mondo così invidiato per lo stile di vita.
Ma non basta.
L’alto debito pubblico rappresenta un freno alla crescita ed è necessario assicurarne una lenta ma graduale riduzione.
Il Paese è ancora troppo complicato e poco efficiente, rendendo più difficoltoso che altrove sviluppare idee innovative e assumersi il rischio.
Permane una cultura anti-industriale miope, che vive ancora l’industria e l’imprenditore come qualcosa di contrapposto al lavoro e alle famiglie, senza considerare che la realizzazione del lavoro avviene proprio nell’impresa, e quello che ogni famiglia vuole è lavoro per i propri figli. Questo vale per le famiglie di imprenditori, come quelle degli operai, dei quadri, dei dirigenti.
Serve dunque accelerare i cambiamenti e cogliere le opportunità. Le nostre proposte non sono un libro dei sogni. La missione-Paese di almeno 1,5 milioni di posti di lavoro in cinque anni è realizzabile con uno sforzo collettivo da parte della politica che verrà, delle imprese, dell’Europa. L’obiettivo può essere ampiamente superato se verranno implementate le misure proposte.
All’Europa chiediamo di sfruttare la finestra di opportunità dei bassi tassi di interesse per finanziare un piano straordinario di investimenti, in Italia come in tutti gli altri paesi che vorranno procedere verso maggiore integrazione.
Alla politica chiediamo di confrontarci su proposte concrete, che responsabilmente internalizzano il vincolo del debito pubblico, che dicano non solo cosa bisogna fare ma come, con quali risorse e con quali effetti.
Noi imprenditori vogliamo impegnarci per rendere le nostre imprese sempre più il luogo dell’innovazione, della crescita dimensionale, dell’apertura ai mercati esterni, della coesione sociale.
Le Assise sono il punto di partenza di un nuovo percorso. Nel post-Assise consolideremo il nostro ruolo in tutte le sedi e livelli attraverso le proposte concrete, le soluzioni e le modalità di implementazione che sosterremo non nell’interesse di un settore produttivo o di una categoria sociale, ma nell’interesse dell’industria italiana, fatta di imprenditori e delle loro famiglie e di lavoratori. Valuteremo le politiche, e non la politica, in modo rigoroso, basandoci sui fatti e sugli effetti economici delle scelte che verranno di volta in volta effettuate.